Licenza di non innovare

4 giu

«E ne farai un brevetto?» chiede un collega a Massimo Redi, il protagonista del romanzo. «Non credo proprio» risponde. «I brevetti servono solo alle grandi aziende per rallentare lo sviluppo tecnologico.» E questa è anche la mia opinione. Il brevetto moderno nasce dall’idea romantica del genio. Un solitario inventore, nel chiuso del suo scantinato, crea una macchina straordinaria che il mondo subito riconoscerà come tale e pertanto vorrà dare il giusto compenso a cotanta creatività e intelligenza. Nella realtà le cose vanno in maniera completamente diversa. Innanzitutto inventori solitari non esistono, la scienza e la tecnologie nascono dalle interazioni tra le persone, a ogni livello: lezioni, seminari, letture. A ben vedere un ricercatore passa la maggior parte del tempo in questo genere di attività e il confine tra la mia idea e l’elaborazione della tua è sempre molto labile. Ma anche ammesso che sia possibile attribuire la paternità di una singola invenzione, poi bisogna farne un prodotto e non crederete certo che basti andare da una grande multinazionale del settore con in tasca una bella descrizione dell’idea! Il trasferimento di know-how è un’operazione lunga che richiede tempo e fiducia reciproca, il fatto che ci sia un brevetto di mezzo non ha quasi nessuna importanza (anzi, talvolta è un ostacolo). Nella pratica un accordo di riservatezza (nondisclosure agreement) è spesso più che sufficiente.

E allora perché si fanno i brevetti e se ne fanno così tanti? La motivazione principale è impedire ai concorrenti di fare qualcosa di meglio di quello che si sta producendo. Non è necessario realizzare qualcosa per brevettarla, si può brevettare qualunque cosa e le grandi aziende lo fanno a tappeto su ogni pensabile miglioramento dei propri prodotti. Fatto il brevetto un’azienda non ha poi nessuna motivazione a realizzarlo sul serio: non ha senso sostenere i costi di uno sviluppo, quando è possibile vendere ciò che sia ha già e impedire ai concorrenti di produrre di meglio. Per fortuna i brevetti non sono poi così efficaci: è facile aggirarli, le cause legali sono lunghe, costose e complesse, il principio di funzionamento di un prodotto non è sempre evidente e talvolta è molto difficile capire se infrange o no un brevetto. Insomma, malgrado i brevetti, la tecnologia procede.

2 COMMENTI A “Licenza di non innovare”

  1. leonardo 5 giugno 2011 alle 19:15

    lei ha mai depositato brevetti?
    come giudica, da questo punto di vista, i rapporti tra università e aziende, tra ricerca e sviluppo?

    • Massimiliano Pieraccini 6 giugno 2011 alle 11:34

      Sì, tre. Li ho lasciati scadere (dopo tre anni, se non vengono rinnovati pagando una piccola tassa decadono).
      Che ci siano stretti rapporti tra università e aziende è una cosa ottima, purché l’università non finisca per dipendere completamente dalle commesse aziendali (purtroppo, dato il ridicolo finanziamento pubblico, questo è un rischio molto concreto, soprattutto per i gruppi di ricerca più attivi e produttivi). Dipendere dalle aziende non è certo di per sé un male, il problema è il “fiato corto” di questo genere di ricerca. La ricerca più produttiva è anche quella più rischiosa e a lungo termine, ma non si può pretendere che le aziende si facciano carico di ricerche dai risultati del tutto imprevedibili che potranno avere frutti dopo dieci o vent’anni.

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