Capitano di vascello

27 lug

Domenica scorsa l’edizione fiorentina di “Repubblica” ha pubblicato questo mio racconto.

* * *

Un libeccio umido soffiava a raffiche sul litorale pisano. La spiaggia era deserta. Nubi minacciose correvano verso l’interno accavallandosi nel cielo grigio di quella mattina di marzo. Due settimane all’inizio della primavera, ma sembrava pieno inverno.

Una strada rettilinea tagliava la fitta pineta. Il vento la infilava come un canale e correva dritto fino a sbattere sui volti inespressivi dei due carabinieri a guardia del cancello. La rete di recinzione era sormontata dal filo spinato. All’interno, tra pini secolari, sorgeva una piccola città di edifici a due o tre piani dalle linee pulite e razionali. Era il più grande centro di ricerca delle forze armate italiane. Sul piazzale dell’edificio della direzione erano parcheggiati ordinatamente quattro furgoncini verde militare e una FIAT 128 blu. Dalla porta a vetri uscì un ufficiale, guardò distrattamente la sua auto, si sistemò la tesa del cappello fissando con occhi vuoti la fontana a pianta romboidale e, infine, s’incamminò lungo il viale alberato. Il vento spruzzava tutt’intorno l’acqua del getto, fino a bagnare la targa di bronzo affissa alla parete. Uno scudo medioevale con al centro un atomo stilizzato. Sulla corona la scritta: CAMEN, Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare. L’élite delle forze armate, in quell’epoca cupa in cui l’apocalisse nucleare sembrava imminente e l’Italia si trovava sulla linea del fronte, tra NATO e Patto di Varsavia. In quel centro di ricerca il simulatore di onda d’urto, un cannone lungo dieci metri con una bocca di settanta centimetri, testava su mezzi e materiali gli effetti di un’eventuale esplosione nucleare. Uno spiazzo, detto poligono, era attrezzato per simulare il fall-out radioattivo sui carri armati. Il laboratorio di radiopatologia compiva esprimenti su cavie e primati per valutare gli effetti sanitari di una guerra nucleare. Ma i sogni, o forse gli incubi, degli uomini del CAMEN erano stati molto più ambiziosi. Nell’archivio del comandante, presidiato da due carabinieri con l’ordine di perquisire chiunque entrasse o uscisse, erano conservati i disegni e gli schemi definitivi del missile balistico Alfa. Milleseicento chilometri di gittata, l’equivalente italiano del missile Polaris della Marina degli Stati Uniti. E non solo. In uno schedario chiuso con doppie chiavi e protetto da sigilli c’era la ragione stessa della fondazione di quel centro alla fine degli anni Cinquanta, oltre vent’anni prima: il progetto del sottomarino a propulsione nucleare S-521 “Guglielmo Marconi”. Ottantatré metri di lunghezza, dieci metri di diametro, tremilaquattrocento tonnellate di dislocamento, sei tubi di lancio, dodicimila ore di autonomia in immersione. L’arma definitiva di quella strana guerra, mai dichiarata, tra blocchi contrapposti iniziata trent’anni prima. Qualunque cosa potesse succedere alla madrepatria, un sommergibile in immersione, armato di missili balistici a testata nucleare, sarebbe stato invulnerabile e in grado di scatenare la più spaventosa rappresaglia. “La costruzione del sommergibile atomico resta l’obiettivo finale a cui tutti dobbiamo cooperare” aveva dichiarato nel settembre del 1963 il ministro della Difesa Giulio Andreotti alla Camera dei Deputati.

E il primo passo verso un sommergibile nucleare è costruire un reattore. Uno piccolo e semplice, perché non deve certo illuminare una città. Possibilmente a uranio altamente arricchito, lo stesso usato per la fabbricazione delle testate. Un RTS-1 della statunitense Babcok & Wilcox, ad esempio. Ufficialmente un reattore di ricerca, non un propulsore per sommergibili, ma con le caratteristiche giuste per diventarlo, un giorno. Un reattore civile e quindi esportabile in Italia nello spirito della Conferenza di Ginevra del 1955. Per questo nel 1958 il Ministero della Difesa lo aveva fatto acquistare dal Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari. E per questo fu costruito in pochi mesi in quella bella pineta sul litorale pisano.

Il tozzo cilindro dell’edificio di contenimento spuntava appena sopra le cime dei pini. Sul fianco svettava il camino, l’unica uscita dell’aria contenuta all’interno. Tra le nubi si aprì un varco e il sole fioco illuminò la facciata a mattoncini blu del basamento quadrato. La pioggerella discontinua minacciava tempesta e bagnava la tesa del cappello e i fregi sulle spalline dell’ufficiale che camminava solitario lungo il viale. Era solo capitano di vascello, ma era il più alto in grado del centro. I suoi predecessori erano stati tutti generali o ammiragli. Il personale aveva afferrato immediatamente il senso di quell’avvicendamento e non l’aveva presa bene. Le guardie sotto la tettoia d’ingresso scattarono sull’attenti quando lo videro attraversare il piazzale. L’ufficiale, scuro in volto, passò senza degnarli. All’interno si lasciò ispezionare con il contatore Geiger, le norme di sicurezza lo imponevano anche in entrata. Salì la scala metallica, attraversando i piani come i ponti di una nave fino al vestibolo del vano piscina. La porta si richiuse alle sue spalle e rimase per alcuni secondi nella camera di decompressione. Nelle orecchie sentì un lieve fastidio finché la porta successiva si aprì con un sibilo. La sala vasche gli ricordava la cupola di una cattedrale. Le pareti azzurre circolari, il tetto bombato e tutt’intorno il ballatoio del corridoio visitatori. Al centro la piscina. Ventidue metri di lunghezza e nove di profondità. Poteva contenere un palazzo di tre piani. Una delle due estremità si allargava in una forma arrotondata e sopra poggiava immobile il carroponte. Sul corrimano un salvagente con la scritta “Galileo Galilei”, come se fosse una nave e qualcuno potesse veramente cadere in acqua. L’ufficiale non ne aveva mai còlto l’involontaria ironia. Percorse il pavimento di linoleum rosso fino alla cabina di comando, una  struttura di metallo e vetro che si affacciava sulla piscina. Il capoturno, in camice bianco, salutò l’ufficiale superiore. Avrà avuto meno di trent’anni. Capelli corti sulla nuca e scriminatura come tagliata con il bisturi.

“Siamo pronti” fece il giovane uomo.

Due pareti erano coperte di strumentazione. Quadranti a lancette, spie luminose, pulsanti, interruttori, manopole. Alla consolle di comando era seduto un tecnico. Un altro fissava un rullo di carta che scorreva dietro un vetro. Il pennino tracciava una riga nera rettilinea.

“Procedete pure” ordinò l’ufficiale con voce un po’ troppo squillante per risultare autoritaria.

Nel vano piscine si accese un lampeggiante. Il tecnico alla consolle azionò un interruttore. Una lancetta cominciò a ruotare lentamente. Il pennino sul rullo si mosse.

“Stiamo estraendo le barre di controllo” spiegò il capoturno, pentendosi subito di aver aperto bocca e di aver usato quel tono. Non si spiega a un superiore, tutt’al più si informa. Ma il tecnico sapeva bene perché avevano mandato lì quell’ufficiale, un militare di carriera senza nessuna competenza in campo nucleare.

Il capitano di vascello si avvicinò al vetro che dava sulla piscina. Tutta quella tecnologia lo metteva in soggezione. Lui preferiva il mare, per questo era diventato ufficiale di marina.

Sul pelo dell’acqua vide alzarsi le barre. Una spia luminosa sulla consolle si rifletté sul vetro.

“Reattore critico” dichiarò il tecnico che fissava il rullo. La voce tradiva una nota di emozione. Era iniziata la fissione dell’uranio contenuto nelle barre di combustibile dentro la piscina.

Una luminescenza azzurrognola rischiarava l’acqua. L’effetto Cherenkov. Una luce che esiste solo dentro un reattore nucleare. Poche persone al mondo l’hanno vista, perché pochissimi sono i reattori a piscina aperta come l’RTS-1. Ma l’ufficiale non condivideva l’entusiasmo dei suoi tecnici per quella visione. In fondo, per lui, era solo una luce blu.

“200 chilowatt in crescita” avvertì il tecnico alla consolle mentre muoveva rapido manopole e interruttori. Sudava. Il pennino sul rullo sobbalzava. Sulla parete dietro si accesero le luci delle pompe. L’altro tecnico ruotò un paio di interruttori. L’acqua scaldata dalla fissione veniva ora estratta e portata allo scambiatore a fasci tubieri all’esterno dell’edificio.

“5 megawatt” dichiarò infine il tecnico. Era la massima potenza. Un rombo sordo proveniva dalla stessa struttura dell’edificio, come se una forza primordiale nelle viscere della Terra lo scuotesse. Dallo scambiatore a un centinaio di metri dalla cupola si alzava una nube di vapore, quasi indistinguibile dal cielo plumbeo che la sovrastava.

Per ventiquattro lunghi minuti il reattore ruggì come una bestia ferita.

“Giù le barre!” ordinò infine il capoturno, con lo stesso tono con cui avrebbe ordinato di fare fuoco a un plotone di esecuzione. Aveva gli occhi bagnati di lacrime.

“Spento” fece il tecnico alla console dopo pochi secondi.

L’orologio a muro segnava le undici e nove minuti. Era il 7 marzo 1980. L’ultima accensione del reattore. La missione del tenente di vascello era chiudere le attività del centro. Nessun’altra sperimentazione, nessun ulteriore studio o sviluppo. L’Italia aveva firmato il trattato di non proliferazione. Si era impegnata a cessare ogni ricerca nucleare in campo militare. Non ci sarebbe stato più alcun missile balistico italiano, tanto meno un sommergibile nucleare. In caso di conflitto l’Italia sarebbe stata solo un campo di battaglia.

6 COMMENTI A “Capitano di vascello”

  1. Att 27 luglio 2011 alle 12:10

    Fintanto che faremo decidere, con referendum, ai cittadini che decidono per la stragrande maggioranza in funzione dell’impatto emotivo e non per conoscenza della materia le cose andranno così, forse ci vorrebbe una classe politica che aiutati da esperti prenda più decisioni e non le demandi ad altri.

    • Massimiliano Pieraccini 28 luglio 2011 alle 10:48

      Il racconto non voleva essere una presa di posizione pro o contro il nucleare, ma un resoconto (il più possibile fedele anche se in forma narrativa) di un fatto storico importante completamente dimenticato.

  2. monica rais 28 luglio 2011 alle 21:58

    complimenti, molto buono racconto

  3. matteo 4 agosto 2011 alle 10:12

    ma è tutto vero? ci sono libri che ne parlano?

    • Massimiliano Pieraccini 17 agosto 2011 alle 18:18

      Tutto vero. Il miglior libro sull’argomento e la mia principale fonte di informazioni è “Il nucleare a Pisa. Quaderno di memorie storiche sul CAMEN 1955-1985″ di Amerigo Vaglini, ETS Editore. La descrizione del reattore è piuttosto accurata e ci sono numerose foto che mi sono state utilissime per descrivere gli ambienti. Inoltre prima di cominciare a scrivere il racconto ho contattato l’autore, ex tecnico della centrale. La chiacchierata con Vaglini è stata preziosa per catturare lo stato d’animo di quel momento.

  4. Onofrio Filoramo 7 ottobre 2011 alle 14:10

    Sarebbe bene ricordare che il mancato sviluppo dell’energia nucleare in Italia non è la conseguenza di scelte emotive prese in occasione dei due referendum sull’argomento ma antecedente.
    Il miglior tecnico che avevamo,il professore Felice Ippolito, è stato bloccato con un processo infamante.
    Anche Enrico Mattei aveva tentato di percorrere la strada dell’indipendenza energetica, la sua fine è stata più tragica.

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