La malattia dei progetti

22 lug

Massimo Redi, il protagonista del romanzo, e lo scienziato “eretico” Alexander Kaposka si sono conosciuti a un meeting di un progetto di ricerca finanziato dalla comunità europea. Nella pausa caffè Kaposka fa un commento sarcastico. Mi sono divertito a inserire questa scena per accennare a una terribile malattia che affligge la ricerca europea (e italiana): l’iperprogettismo.

Da una ventina d’anni, in tutta Europa, gli scienziati per ottenere i finanziamenti di cui necessitano, devono compilare una proposta di progetto di ricerca, ovvero dire in anticipo cosa si vuol fare, dove si vuole arrivare e quali spese si sosterranno. Molto ragionevole, direte. Sì, certo, se non si trattasse di ricerca scientifica. Vediamo come vanno realmente le cose. Uno scienziato, per essere finanziato, dovrebbe prevedere in anticipo i risultati della sua ricerca, ma se lo potesse fare non sarebbe appunto ricerca, allora inventa e spara grosso (in seguito si potrà sempre dire che ci sono stati problemi imprevisti). I membri dei comitati che decidono dei finanziamenti è gente indaffarata che deve valutare decine di progetti in pochi giorni (lo so bene, anch’io ne ho fatto parte) e tendono a essere infastiditi da ciò che non capiscono, inoltre per compiacere il potere politico (il vero finanziatore) hanno sempre un occhio molto attento alle possibili applicazioni. Risultato: un progetto per essere finanziato deve essere banale (ovvero comprensibile a una lettura veloce e distratta) e applicativo. Niente di più lontano dalla vera ricerca scientifica. Gli scienziati lo sanno e si adeguano, chiedendo soldi per fare cose a cui non credono, ma che gli permettono di ritagliarsi del tempo e qualche residuo di fondi per fare un po’ di vera scienza.

L’intero meccanismo pur ammantato da efficientismo manageriale (le parole chiave sono: work package, GANTT, PERT, flow chart, effort plan, cost plan, overhead…) è il trionfo dell’inefficienza. Ogni scienziato dedica circa un mese all’anno a scrivere progetti e un altro mese a rendicontarli. Dei nove mesi che rimangono (tolte le ferie e qualche altra incombenza), almeno sei vanno comunque dedicati a fare ciò che abbiamo detto di fare, ma sappiamo essere solo una perdita del tempo. Alla fine rimangono forse tre mesi di buona scienza all’anno.

2 COMMENTI A “La malattia dei progetti”

  1. margherita aldi 26 luglio 2011 alle 17:32

    Ho ricevuto il libro in regalo da mio figlio, che me l’ha fatto anche dedicare dall’autore, suo docente universitario, e, sebbene l’abbia trovato alquanto difficile, sono laureata in una materia umanistica, mi ha coinvolta completamente nel vortice degli avvenimenti, ma, soprattutto, mi ha fatto riflettere su argomenti che, pur essendo quotidiani, meritano un’approfondita meditazione da parte di chi, come me, si occupa di tutt’altro. Ritengo che il libro meriti un’ampia divulgazione, perchè a parte la storia in se stessa, è giusto che tutti sappiano quanto grandi siano le difficoltà di chi si dedica alla ricerca nel nostro paese, e al di là di tante parole dette al vento, un romanzo è forse il mezzo migliore per raggiungere gran parte dell’opinione pubblica

  2. FemtoTera 24 agosto 2011 alle 21:26

    Insomma chi fa ricerca è proprio messo male, infatti:
    1) se brevetta limita la libertà agli altri di usufruire del frutto della sua ricerca
    2) se scrive un progetto si deve abbassare a proporre cose banali in maniera tale che il suo progetto sia “letto” ed accettato
    3) se riceve fondi “a pioggia” è catalogato come un parassita della società e deve essere annientato

    Chiudiamo tutto e lasciamo all’università solo la didattica?!?
    Forse è una soluzione, forse stà già succendendo…

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